Di miele e di aculeo - STAUROPOLIS

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D'altraParte

"...cercare ciò che ci unisce, piuttosto che ciò che ci divide (Giovanni XXIII)
"...distinguere per unire (J. Maritain)
...
Fa problema non ciò che ci divide nel senso che ci distingue e ci caratterizza, ma ciò che ci contrappone separandoci.
Cerchiamo ciò che ci divide per con-dividerlo, piuttosto che cercare ciò che ci unisce e che quindi già condividiamo.
Infatti, ciò che viene condiviso - nel suo aspetto positivo - viene partecipato e quindi valorizzato; poi, ed insieme, ciò che viene condiviso - nel suo aspetto negativo, la divisione - viene frantumato, disgregato, superato.




  Parole redente

Parlare è un’avventura i cui esiti, spesso, non sono noti ai più saggi. Tanto che i nostri vecchi, non di rado, sostennero che la migliore parola fosse “quella che non si dice”, il verbo inespresso. Dire è dirsi. Dirsi è darsi. Ineluttabilmente. Non necessariamente come vorremmo, così come ci percepiamo o come realmente siamo. Le parole, infatti, se da una parte ci rivelano, dall’altra ci nascondono. Manifestano ed “ingannano”. E se mettono le ali alla nostra anima, infine la costringono in un pugno. Un pugno di parole, appunto.
Sono nostre le parole, e nel contempo non ci appartengono, sono di tutti. Dei nostri più amati interlocutori e della folla. Folla osannante, folla inferocita. Mille nomi e nessuno. Sono mare le parole, ogni parola: chete e inferme, pacificanti e turbinose. E una volta pronunciate godono di vita propria, perpetuando benedizione e morte.
E’ difficile parlare. Parlare “bene”, intendo. Mettendo ordine, con infaticabile fatica, nei propri pensieri. Per muovercisi dentro, guardarli con lucidità, riconoscervisi. Dire bene è infatti rasserenante riflettersi, gioioso riflettere.
Ma se parlare ci impegna davvero, comunicare richiede molto di più, indefinitivamente di più. Introdursi nel proprio universo interiore ed organizzarlo perché entri in relazione – pregnante, umana – con l’universo dell’altro, l’universo che è l’altro. Contemplato con lo stupore che genera il prodigio. Senza rinunciare ad essere quello che sono: i miei pensieri, ed io. Dire con la volontà – e non più col timore - di dirsi; dirsi col coraggio di darsi.
Fare ecumenismo significa proprio questo: redimere le parole che hanno scavato il diabolico abisso della separazione tra i discepoli di Gesù e riconciliarsi con la Parola. Comunicare come Dio ha comunicato: proferendo una Parola-carne, un Corpo-per-noi-dato, l’emmanuele-Gesù. Preferendo la Via che egli stesso ha misericordiosamente tracciato sotto i nostri passi.
Ecumenismo è redenzione, estensione partecipativa della Redenzione. Una parola difficile, “ma non così lontana da non poter essere praticata”.

Giovanni Scordino




  Rammentare e rammendare

Capita. Arriva il… successore. Magari non lo dice - pensa: qui bisogna cominciare da zero. E “quello” di prima…? Da zero... Punto. Inutile precisare che il predecessore, qualche tempo addietro, nella medesima situazione - magari senza dirlo - pensò la stessa cosa.
Capita. Anche in cose ecumeniche. Con la Bibbia in mano. A discutere da dove o da cosa cominciare. O persino a stipulare il principio.
La si potrebbe chiamare “sindrome del fondatore”. Premessa imprescindibile di questo fondare? Affondare. Lama e imbarcazione.
Clicco su gestore ricerche di Bibbia Live. Cerco fondatore nel Nuovo Testamento. Risultato? Zero. Effettivo stavolta, non presunto. Incrocio la ricerca con uno strumento più tecnico, il Vocabolario del greco del Nuovo Testamento di Carlo Rusconi: nessun termine per fondatore. Fondare invece c’è. Viene usato in Ebrei 1 per dire che Dio ha fondato (la terra) e in Matteo 7 raccontare di quella casa sulla roccia.
Riassumendo. Colui che fonda (fondatore rende meno il divino dinamismo) è Dio-il Padre. E’ tale perché pone il fondamento del suo Figlio. Fonda in Lui: senza di Lui niente è stato fatto. Fonda all’inizio e, decisivo, fonda l’Inizio. Anche in questo il Padre sembra prendere nome dal Figlio e il Figlio dal Padre. Quale mirabile sinergia!
Mi dico: Tutto questo dovrà pur significare qualcosa!!
Fondamento, noi, certo no. Fondatori neppure. Allora cosa? Costruttori…? Se il Signore non costruisce…
Siamo dunque esclusi in ogni modo dall’edificazione?
Paolo, in effetti, parla di sé come di uno che pone il fondamento, e di altri come costruttori. Il nodo allora da sciogliere sembra consistere nel riconoscere il Padre che fonda ogni cosa nel suo Figlio come l’Inizio già posto, il buon inizio che ci conduce a metà dell’Opera; consiste nel riconoscersi partecipi - per Sua magnanimità - dell’Opera, quella Grande.
Bisogna dunque ri-cordare, rimettere nella memoria e nel cuore, questa Parola: Ha cominciato Dio (il bel titolo di un libro del nostro padre Cufaro). Altri, una schiera innumerabile di Testimoni, si è accompagnata all’Artefice… Il mio posto è tra questi, e tra questi il mio posto è quello dell’inutilissimo che non ha fatto neppure quello che doveva fare.
Il Paraclito ricorda per noi e a noi: per rammendare. E rammendare per ricominciare.
“Non si cuce una pezza nuova su un vestito vecchio”, diranno. Certo. Ma se il Signore delle cose impossibili alla fine di questa fatica di risanamento delle lacerazioni, anzi all’improvviso, graziosamente, ci “premiasse” trasfigurando la nostra povera veste in un abito tutto nuovo, più candido della neve, splendido della Sua luce?
L’ecumenismo, contemplando il folle amore del Crocifisso Signore, nutre questa folle speranza.
Mentre i corifei del mondo annunciano: Arrivano i saggi! - quelli che sanno, che capiscono, che sanno fare come s’ha da fare… - un tale Paolo di Tarso - abbacinato, anzi accecato (o veggentissima cecità!) dal Sole come Il Folle di Gibran - grida: Nessuno t’inganni: se pensi di essere sapiente in questo mondo, diventa pazzo…! Dio considera pazzia quel che il mondo crede sia sapienza!

Giovanni Scordino



Che ne sarà di quella terra che non fu mia, e che per sempre mi fece suo?
E del suo mare, e di tanta bellezza?
Madre stuprata sotto gli occhi distratti dei figli, intenti ad affogare in una perenne sbornia preelettorale frustrazioni e inettitudini.
In questa forsennata corsa verso un sogno già sognato, avvelenato dalla disillusione e dall'amianto, sembra davvero farsi fioca la speranza all'ombra delle ciminiere...
Ma se "il pessimismo della ragione" mi costringe all'angolo, lascio che sia "l'ottimismo della volontà" a proferire la potente parola che mi rialza, che mi sottrae alla connivenza del silenzio, per scongiurare tanta barbarie, dell'intelligenza e dell'anima.
Sì, c'è ancora un mondo di anime da placare: le anime che dormono e ci compiangono; le anime che sono e ci deridono; le anime che vengono e, già, ascrivono a dannazione la nostra memoria.
Perchè anche questa Valle e questo Mare furono redenti, ed io non posso soccombere al peso di questa maledizione che, non un dio, ma uomini stanchi decretarono.
No, non posso, non devo, non voglio.


Illustre Dottor Comin,
avrei voluto scriverLe nella forma di una lettera, ma il mio cuore ferito da tanto annunciato scempio ha germinato spontaneamente le righe di cui sopra.
Mi commuovono il forte Dottor Gaetano Gaziano e la sua indomita Caterina, in questa immane sfida di civiltà. Anzi, di più, mi sommuovono: dicono a me, quarantacinquenne prematuramente iniziato alla disfatta, che non bisogna demordere, che non bisogna cedere alla lusinga rinunciataria.
Mi creda: la mia speranza non riguarda solo le sorti della splendida Valle dei Templi, ma è rivolta a quel “mondo” futuribile che essa rappresenta, altrimenti destinato a cedere il passo al brutto estetico, coerente espressione del brutto etico.
Ci aiuti, Dottor Comin!
Grazie.





  I fiori e il giornale

Quel freddo sabato sera dell’inverno 1977, entrando, mi colpì il ritratto - gessetti colorati su cartoncino nero - dei genitori. “L’ha fatto mio figlio Francesco”, disse la signora Rosalia, con tono modesto, mentre un raggio di luce, per un attimo, faceva capolino dai bellissimi occhi.

Ero arrivato alla casa dei Chillura per la giornata pro seminario, del giorno dopo. C’era la neve a Santo Stefano e non ci sarebbe stato modo di raggiungerla per la prima Messa della Domenica.

Tutto fu un incanto. Di premure, di discrezione, di eloquente silenzio.
Attorno al desco, anche lo sposo GiovanBattista e il figlio Attilio. Angelo, seminarista liceale, era stato inviato dal rettore Di Liberto a servire altrove.
Dopo cena scambiammo poche parole e, davanti ai miei occhi bambini sbalorditi, mi fu preparato il letto: tra candide lenzuola di lino venne posto, da mani amorevoli e sicure, uno scaldino con la brace ardente… Non sono mai riuscito a dormire la prima notte fuori casa: quella notte dormii da bambino.

Se chiedete di mamma Rosalia, ai figli o a chi l’ha conosciuta, vi racconteranno storie come questa, umili frammenti dello splendido mosaico di una vita consegnata alle piccole cose, restituita al semplice, all’essenziale.
Vi racconteranno che alla signora Rosalia piacevano i fiori, i gigli per esempio; che amava stare interminabilmente con il suo Angelo, andare con lui pellegrina nei santuari dedicati alla Vergine santissima, o alla Quisquina della Santuzza.
Vi diranno del suo gusto per le cose belle, per la misura; della sua singolare dedizione alla famiglia, del suo rifuggire il vaniloquio e ricercare la corona del Rosario.

Ma non tutti sanno che mamma Rosalia fu tra i più fedeli abbonati del nostro settimanale, per quasi mezzo secolo. Apprezzava particolarmente gli editoriali di mons. De Gregorio. E come lui è tornata a Casa il giorno di san Filippo Neri, un semplice che amava tanto la Madonna e faceva consistere la santità nel sorridere - sempre e comunque - alla vita e agli altri.

Giovanni Scordino



Sono stanco
Lasciami riposare
Tra le tue braccia
Padre mio
Carezza le mie lividure
Con le candide palme
Della tua pietà
Perché vengo meno
Senza il tuo sguardo
23.10.1987

Quanta fretta, mia Signora...
Dove andate di buon ora?
- Dalla stanca mia cugina,
in attesa, su in collina.
A portarle amore e cura,
del mio Figlio la premura;
e con lei dar voce al canto
che dal cuore sale al Santo,
adorata Carità
che Egli stende su ogni età!

Dormono le mie madri
ora non più stanche,
e le mie sorelle
chine sull'oceano implacato;
dormono i miei padri
custodi del Deposito,
e i miei fratelli



che versarono la rossa semente;
dorme il figlio di ardue speranze
e i giorni che verranno,
stretti, in quel medesimo Silenzio,
tra il Padre e la Parola
all'inizio d'ogni cosa.

Terra estrema
e inaccessibile
pura e insidiosa
figlia
del Fuoco e del Mare
ti trapassa un infinito silenzio
che tutto colma e vuota
Sul tuo vento
lama che fende e cauterio
trovano pace e giochi
i gabbiani
bianche, lunghe ali






Qui
gli opposti
cantano all’uno
mare di cielo
onda di sole
Te bruna Linosa
figlia e sorella
della bionda Sicilia
te
dolce prigione
che mi fai libero
27.4.1999
Storia della Sicilia in 100 secondi
Sicilia bedda


Puoi scegliere la colonna sonora che preferisci
tra quella propria del video e la canzone di Pino Daniele.



Un posto ci sarà
per questa solitudine
Perché mi sento così inutile
davanti alla realtà

Un posto ci sarà
fatto di lava e sale
Dove la gente sa
che è ora di cambiare

Un posto ci sarà
dove puoi alzarti presto
Il giorno finisce per dispetto
E haje voglia d'alluccà

Sì, un posto ci sarà
dove si pesca ancora
E il mare porterà
una storia nova
Io son pazzo di te
'e chesta fortuna
Sicily
terra 'e nisciuna

Un posto ci sarà
per essere felici
Cantare a squarciagola e dici
tutt' chell' ca vo' tu

Un posto ci sarà
dove si spera ancora
La gente porterà
una storia nuova

Io son pazzo di te
'e chesta fortuna
Sicily
terra 'e nisciuna


SICILY, Pino Daniele

 
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